venerdì 27 luglio 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Nessuno sa
quando il lupo sbrana"
di Maddalena Capalbi



Maddalena Capalbi Nessuno sa quando il lupo sbrana La Vita Felice, Milano, 2012


Questo libro di Maddalena Capalbi mi fa venire in mente alcune considerazioni in ordine ai mutamenti  del «parlato» e del «personale» del tardo Novecento. Questo della Capalbi è un «parlato» e un «personale» sciolto, liquido, snodabile, immediato per un «contenuto», o meglio, per un «contenitore» misto tra diario, occasione, storie periferiche e accadimenti vari ma sempre nell’ambito dei legami parentali e affettivi. È una poesia legata al mondo delle esperienze primarie; è il suo modo di restare attaccata al «reale».
Capalbi prende atto che quel poco di pseudo-classicismo che si è voluto accordare ad uno stile mitologicamente sostenuto, non ha lasciato dopo il Novecento traccia significativa, durevole. Lo pseudo-simbolismo del post-simbolismo del tardo Novecento è stato davvero una cosa curiosa: convenzionale nell’enunciazione e conservativo nella formalizzazione, non era in grado di offrire alla poesia delle nuove generazioni alcun sostrato su cui poggiare la forma-poesia. Adesso, è chiaro che i neoclassici della scuola orfica hanno scritto e parlato per tutto il tardo Novecento in una prosa rimata e ritmata, al meglio, antichizzata e nulla più. Sono stati i simbolisti italiani del primo Novecento (Gozzano, Govoni, Moretti, Vallini, Corazzini) che hanno scoperto la prosa, il personale, l’inflessione egolalica, la natura metaforica del discorso poetico inteso come ambientazione di interni domestici e raffigurazione di personaggi. Essi chiusero tutte le parole, tutte le forme, predestinandole esclusivamente ad un uso laico piccolo borghese. Se adesso facciamo un salto in avanti, alla seconda metà del secolo scorso, e precisamente ai decenni che hanno visto l’esaurimento dello sperimentalismo e della poesia degli oggetti, quello che vediamo è uno territorio linguistico senza frontiere, dove è possibile manovrare a piacimento il veicolo poetico alla ricerca del proprio orto botanico di linguaggio incontaminato, direi biologico (con tanto di autobiologia che fa rima con apologia dell’io). Ne derivò qualcosa di assai incongruo: il discorso poetico del secondo Novecento concede comodi divani agli esiti epigonici, c’è spazio per chi vuole accomodarsi, c’è un atrio per i ricevimenti, c’è un salotto per l’intrattenimento, c’è un corridoio lastricato di sperimentalismo «privato» e di oggettistiche «urbane», di periferie «urbane», di ulcerazioni private, privatissime; non si può andare né avanti né indietro, né alzarsi, né sedersi, si scrive come se si fosse tutti davanti ad una telecamera che spii la nostra privatissima vicenda privata. Ecco la ragione per cui molti libri di poesia (e di narrativa) ci mettono davanti il piatto di una quotidianità da vetrina, imbalsamata, artefatta, finta, posticcia fatta apposta per l’occhio scrutatore della telecamera.  Ecco la ragione di molta poesia turistica, che adotta a proprio modello la guida turistica Michelin.
Nella poesia della Capalbi c’è tutto l’universo visto dal punto di vista del piccolo mondo familistico: «mia madre appena entro in casa guarda / il vestito sgualcito che riordino / e mi specchio…»; c’è «lo zio ricco pieno di sé / ha in mano le chiavi della macchina…»; ci sono le cugine: «A pasqua grossi fiocchi colorati / tra i capelli di noi cugine…». Insomma c’è lo svolgimento di alcuni fotogrammi arrestati nel tempo come in una fotografia dove lo sguardo dell’autrice carpisce momenti isolati di una umanità sospesa tra dis-autenticità e precarietà in un’epoca di transizione e di introspezione.

Il cappellino rosa

Raggiungiamo il bar di Maria

lasciando alle spalle la casa
littoria, era il 1954.

L’euforia di indossare il vestito
di tulle e il cappellino rosa,
tutto al rallentatore nel ricordo
di una giornata pulita.


Le gambe da guardare


Mia madre mi ha sempre detto
che gli uomini valgono poco
per difendermi
ho anch’io cercato il piacere proibito
e ho mostrato le gambe
sperando che qualcuno le guardasse.

È sempre stata un’ossessione
liberarmi di mia madre
e delle gambe che vogliono
gli uomini mentre cadono
dal cielo dove vorrei
essere anch’io.


Il lupo sbrana

Mia madre non vuole
l’immagine allo specchio
ed io non ho mai dato resto
al conto della bellezza.
La gola è secca
e non confessa le colpe,
l’unica vanità permessa
oggi
è guardarla
ma nessuno sa
quando il lupo sbrana.

Le mani grasse

Vivo prima di dare fuoco
ai panni che indosso,
odio quando lui mi guarda,
la casa è senza pareti
e nel grande vuoto hanno messo
il letto per me,
gioca a poker, soddisfatto
delle sue mani grasse,
non può afferrare né raggiungere
vorrebbe solo stupire.

A mia madre non piace perdere
e lo sfida con i gesti,
è molto autoritario.



È una favola l’amore
ce la raccontiamo per stare bene,
mio padre ne ha una
piange, si passa le mani
tra i capelli di brillantina
e guarda il suo amante,
ragazzo che si ostina a difendere,
unico!

In tre sul motorino rosso
verso la salsedine di un mare calmo
il mare di Foceverde,
ci stringiamo –
di chi sono? – mi chiedo
di quale paesaggio?


Due padri

Non mi piace avere due padri,
tu mamma inveisci sempre
verso quello
che fa i versi con la bocca,
che bacia i santini di gesù,
poi sbatte la porta ed esce
e io prego per lui che torni
e che mi faccia un massaggio
al cuore
che si sgretola
come la pietra al sole.


1 commento:

Anonimo ha detto...

Certo ci si impiega un po' per capire questa esigenza di realtà da descrivere senza mai uscire per un attimo dal seminato. Ma nell'ultima "Due padri" c'è tutto quello che ci si può aspettare da poesie come queste. Sentimenti senza sconti, vissuti e voluti, anche qui l'io che cerca un noi da afferrare , da conquistare , da amare . Belle, molto belle. Grazie Emy