venerdì 20 luglio 2012

PER UNA POESIA ESODANTE
Ennio Abate
La poesia passata a contrappelo.
Sulla ex-piccola borghesia
o ceto medio in poesia. (3)


Tabea Nineo 1990


9. Contraddizioni interne a gruppi diversi, concorrenti ma in modi subordinati

 

Chiarito che siamo tutti ceto medio e che non è possibile più essere dei piccolo borghesi alla Montale o alla Fortini (a seconda delle preferenze), ci restano del passato vari modelli: eroicistici, nicciani, “neo/neon/avanguardistici” o fortiniani, montaliani, ecc. Sono necessari (ciascuno porta con sé - ammettendolo o negandolo - le sue «buone   «rovine»), ma da soli insufficienti per la chiarificazione della situazione presente e in mutamento. Sono simboli non trascurabili, sintomi di adesioni profonde a una storia o a una visione del mondo, ma da soli non decisivi.[1]  Nello specifico del discorso poetico, ne consegue che, come dice Linguaglossa, è vero: la “democratizzazione” dei linguaggi poetici “quotidiani” subisce l’egemonia di quelli dei mass media ed è  ad essi subordinata (e depauperata delle sue potenzialità). Anche perché la democrazia e la poesia non possono ridursi alla dimensione del quotidiano. Né esse possono esserci (ammesso che le si trovi dove si dice che siano) soltanto nel quotidiano. È però vero pure che l’aristocraticismo -  opposto della medaglia -, che oggi permane negli interstizi o nelle frange del ceto medio più ai margini dalle mode “democratiche” e muove una critica  in parte accettabile a  tale fasulla democratizzazione, limitandosi a fare il broncio e a richiamandosi all’antico, al premoderno o alle Origini, resta  un aspetto, complementare ma non alternativo della situazione di stallo.  E riesce patetico coi suoi tratti di nobiltà decaduta quanto l’altro - il democraticismo - appare  arrogante, rampante o falsamente modesto.

 

Le critiche di Linguaglossa ai settori “democraticisti” della ricerca poetica odierna avrebbero però un buon valore euristico, anche ai fini dell’inchiesta che ho evocato, se appunto fossero depurate dal moralismo o dalla pretesa di rappresentare la “linea””  o la poetica buona. Che manca e  andrebbe cercata. Qui un altro punto di dissenso. Mi va bene dibattere tra  contrapposizioni  interne alla ex-piccola borghesia, come quella tra  i poeti  proposti da Giorgio (Madonna, Busacca, ecc.) e i minimalisti-quotidianisti, o, per stare a Pozzoni, tra i poeti che scrivono poesie e i poeti che dicono di fare “non poesie”, ma non riesco a pensare che queste siano le differenze ultime e determinanti e che, confliggendo tra loro e portando a una chiarificazione auspicabile, ci faranno uscire dalla crisi della poesia. Anche se - nolenti o volenti - la «post- poesia» ci avesse spinto su un nuovo terreno, come Linguaglossa sostiene, non stiamo affatto per entrare  nella luce di una nuova aurora.

A me non pare che  precursori di tale nuova aurora possano essere i linguaggi “morti” di Madonna o di Busacca (come non lo sono quelli dei “quotidianisti”). Perché la subordinazione, sostanzialmente politica, la vedo negli uni e negli altri. La vedo in entrambe le poetiche. Entrambe per me sono poetiche di sconfitta o risposte reattive di autodifesa dopo una sconfitta di fronte a un mutamento della società che non riescono a pensare e a rappresentarsi e di fronte alla crisi della poesia, che stava maturando da tempo ed è poi esplosa (all’ingrosso) nella metà degli anni Settanta. Sono false risposte o - al meglio - mezze risposte. Sia sul piano politico sia su quello estetico. Non un paradigma vincente o addirittura dominante.

Nelle prime c’è troppa nostalgia per qualcosa di morto e l’accettazione della sconfitta politica (complementare). Nelle seconde c’è il riconoscimento che il morto è davvero morto, ma questa contrattazione, che potrebbe essere un vantaggio, si perde nella rincorsa a bere il più in fretta possibile la “tazza del consolo” della semplice accettazione del presente così com’è, senza interrogarsi più su chi lo impone e cosa viene indirettamente così imposto alla stessa ricerca poetica.

 

10. Scommessa e terreno di chiarimento

 

A me pare realistico, invece, pensare che le classi (soprattutto quelle  popolari e lavoratrici) siano state sconvolte; e siano  per ora impotenti, comunque disgregate, fluide nei loro contorni, che erano invece abbastanza netti e affidabili una volta. Siano cioè incapaci di autoriconoscersi e di ricostruire alleanze e progetti. E in mezzo ai residui dei tradizionali raggruppamenti una volta fondamentali (borghesia e proletariato, dominatori e dominati) vedo questo vasto e arlecchinesco ceto medio in via di crescente impoverimento  o in uno stato di ebollizione perlopiù populistica (si veda il fenomeno dei grillini[2]). In esso  si agita di tutto. E vi si fanno sentire - in modi dissonanti, cacofonici o nichilistici - gli echi di sconfitta del fascismo, delle lotte contadine prima e di quelle  operaie; il risentimento dei figli di costoro acculturatisi dagli anni Cinquanta in poi e collocatisi nelle istituzioni come “intellettuali periferici”; e l’odio sordo, appena trattenuto e mascherato dalle pensioni dei genitori o dei nonni, delle nuove generazioni alle prese con la disoccupazione crescente e i lavori precari. (In questi discorsi “da ceto medio” mancano, per ora e non a caso: - i nuovi poveri o gli immigrati, tenuti a bada un po’ da tutti e magari affidati ai preti della Caritas; - i nuovi ricchi o gli “immigrati di lusso” e cosmopoliti, ben asserragliati nei loro covi di lusso).  

Il ceto medio è nel pantano, senza  autonomia culturale e senza consapevolezza della situazione reale (si veda il silenzio e la rimozione sulla crisi!), in cui si trova. E non sa quale strada prendere (come il personaggio della poesia di Frost posta in exergo[3]).

Perciò il discorso va spostato  sulla scommessa in un progetto da fare, sulla scelta  della strada da imboccare e sulle difficoltà che incontra una tale ipotesi di lavoro.

Devo  a questo punto raccontare qualcosa che mi riguarda, ma che in piccolo rivela queste difficoltà e accresce la necessità di chiarezza e di scommessa: o in un senso o in un  altro.

Convinto che una differenziazione all’interno del ceto medio (in cui ai livelli medio-bassi rientro) vada stimolata, in questi anni ho fatto spesso riferimento, anche in poesia e nei discorsi sulla poesia, a eventi politici minori o maggiori: in particolare le sconfitte elettorali della sinistra nel 2008, gli indisturbati attacchi israeliani contro Gaza nel 2009, le nuove “guerre umanitarie” che dal 1990 all’ultima contro la Libia proseguono). A me erano parsi  rilevanti e capaci di indurre una qualche reazione “brechtiana” o “fortiniana” o indurre almeno ad approfondire anche la riflessione sulla crisi della poesia, che altrimenti somiglia sempre più a una discussione sul sesso degli angeli.

Preciso subito, contro la malafede in agguato, che tale reazione per me non  significa né produzione immediata e reattiva di una poesiola contro la guerra né  dare il proprio obolo alla cosiddetta “poesia civile”.

Ora, quando, ad esempio, nel 2004, scrissi Contro i poeti che in tempo di guerra non tremano abbastanza o, altre volte, ho pubblicato poesie “politiche” sul blog, sono fioccate accuse del tipo:  Ma perché ti tiri fuori da noi (intesi noi di sinistra o democratici)? Da quale pulpito  tieni la tua lezione? Perché non vai a Gaza? Hai forse un mandato dagli irakeni o dai palestinesi di Gaza per parlare a nome loro?

È un fatto che queste critiche o il silenzio  (in fondo complice) su certe vicende di guerra da parte di colleghi o amici denota una differenza sia sul piano politico (io non voto da tempo i partiti che hanno appoggiato le guerre, gli altri forse sì o sicuramente sì) sia  sul piano della ricerca  critica e poetica (per me tali temi entrano sia in poesia sia nella riflessione critica e sono convinto che possono indurre dei chiarimenti anche nello “specifico”; altri li evitano o li tacciono, suppongo in base alla convinzione che la poesia è autonoma dalla storia. Più banalmente e drasticamente mi è stato detto: “ tu mescoli poesia e politica e fai brutte poesie e cattiva politica”).

 Essendo il discorso  su tali questioni pieno di vecchi trabocchetti, devo ancnora riprecisare che non semplifico  affatto il rapporto tra poesia e politica. Ma insisto sulla sua importanza e consistenza di fronte a chi lo nega o sorvola. Non sono certamente gli eventi esterni o la storia a guidare direttamente o immediatamente la mente e la mano del poeta. Figuriamoci. Né sono così schematico dal disconoscere la verità, ormai banalizzata, per cui un testo poetico, anche trattando solo di un fiore, possa contenere più storia o politica di un testo di piatta propaganda o d’immediato sdegno. (Di solito faccio l’esempio di Celan, a cui m’inchino).

Resta il fatto che c’è la possibilità di misurare una poesia dai suoi legami espliciti o impliciti con la storia (e la politica). E questo  per me è un criterio valido che può avviare un chiarimento nel ceto medio poetico. La poesia va misurata con qualcosa di esterno alla poesia. Per alcuni può essere Dio, per altri il bisogno di Bellezza o di libertà. Persino il criterio dell’ autonomia della poesia è esterno. Per me è il bisogno di polis (o il dramma derivante dall’assenza di polis). Questa misura esterna è necessaria. Quando viene celata o mascherata, impedisce o danneggia il chiarimento che potrebbe avvenire. Bisogna dialogare, polemizzare criticare affinché tale chiarimento avvenga fino in fondo.


[Continua]



[1] Ad es., la contrapposizione che Ivan Pozzoni ha fatto (qui) tra contestatori come lui e codini come me, ammesso che i termini siano adatti, è tutta di parole e appunto simbolica. Allude a vecchie contrapposizioni ma non alla nuova, vera contrapposizione per ora non esplicitabile proprio per la mancanza di condizioni reali  che le potrebbero dare un senso non  puramente soggettivo o personale. Egli si può appellare alla figura di Papini ed io, per controbattergli a quella di Fortini e Linguaglossa a quella di Ripellino o Mandel'štam e i quotidianisti a quella di Sereni o di Giudici, e così via.  Ma ne deriverebbero delle pose “discepolari”, che svelano solo gli “immaginari di partenza” di ciascuno di noi, quelli a cui siamo più legati. Perché al presente né un individualismo anarco-aristocratico o papiniano di cui parlava Pozzoni né un fortinismo “comunista”  né ogni altra impostazione hanno più dalla loro una  accertabile “sostanza”  attiva nell’oggi. Ci vuole  una cornice, un progetto entro il quale questi riferimenti simbolici  assolverebbero alla funzione benefica che ha un riferimento al passato. Sono i vivi che interrogano e scelgono il passato e non viceversa.  Basti pensare che, a meno che tutto il ceto medio in blocco non condivida la reale politica di potenza dei dominatori d’oggi (statunitensi soprattutto e ancora),   non esiste di fatto nessuna politica di potenza  alternativa  né un movimento di rivolta che preluda che so ad un neo-comunismo, che potrebbero portare una parte del ceto medio a decidersi di uscire dal vago.

[2] «Il primo testo, quello di Graheme Turner [Ordinary People and the Media. The Demotic Turn (2010) ], ci spiega consapevolmente la forma sociale del nuovo populismo. Il demotic turn  è infatti la rappresentazione sociale egemone della ordinary people , profondamente radicata nelle culture popolari attuali (che sono prevalentemente digitali). Una rappresentazione che esce da diversi decenni di narrazioni mediali, compresa la loro recente rielaborazione del web  2.0, dai reality, dalla continua compenetrazione tra star system e gente ordinaria (che crea il linguaggio popolare sulle star), dai microfoni aperti alle trasmissioni radiofoniche, dalle miriadi di rappresentazioni di tutto questo nei cellulari sugli smartphone, dal riflesso di questa egemone dimensione simbolica nella vita quotidiana. Ecco quindi le forme di connessione sociale del nuovo populismo nella rappresentazione della ordinary people, forme che sono profondamente innestate nelle nuove figure del lavoro precario e instabile. Il “né di destra né di sinistra” di Grillo, un classico del populismo vecchio quasi quanto la destra e la sinistra, guarda quindi a questa rappresentazione italiana della ordinary people, alle sue forme di connessione simbolica e quindi in una pluralità di piattaforme mediali che elaborano identità valide anche per le figure sociali del lavoro.» (da http://www.sinistrainrete.info/politica-italiana/2186-nique-la-police-beppe-grillo-e-la-regressione-modernizzatrice.html)

[3] A riportare la mia attenzione su di essa  è stato un post di G. La Grassa letto sul Web.

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