lunedì 24 settembre 2012

Ennio Abate
Oggi ho letto...


... «Le mani avanti (giustificazioni in forma di premessa) di Andrea Cortellessa in «Andrea Cortellessa, LA FISICA DEL SENSO. Saggi e interventi sui poeti italiani», Fazi editore 2006

Il titolo si spiega come premessa al libro, che è di ben 774 pagine.  Il saggio è una difesa della poesia contemporanea. Cortellessa prende di petto lo stereotipo che dice «la poesia non serve più a niente». Non nega un mutamento in atto, una differenza dal passato.[1] E trova che molte  opinioni negative sullo stato della poesia in parte colgano il bersaglio. Ma non si arrende, non accetta che questi discorsi diventino un alibi. Indica le responsabilità della critica: «Negli ultimi venti anni a latitare è stata proprio la critica». E passa alla difesa:«sì, è vero, la letteratura è un microcosmo sempre più debole e appartato, nel presente buio e scosceso che è sotto gli occhi di tutti. E tuttavia questo microcosmo resta colmo di valori e di fedi - quelle, laicissime, nelle virtù umane - altrove, da tempo, sviliti e svenduti». Oltre a rivendicare l’umanesimo, Cortellessa relativizza la questione, rammentando che un lamento simile sulla  marginalità e residualità della poesia accompagna «con periodica puntualità, il cammino della poesia moderna». E fa due esempi.
Uno del 1971, quando usciva il primo numero dell’Almanacco dello Specchio a cura di Marco Forti e Giuseppe Pontiggia, i quali nel loro editoriale parlavano di «un mondo, che quando non la [la poesia] rifiuta, la ignora o la isola». Il secondo del 1920, quando T.S. Eliot rispondeva con i saggi  del Bosco sacro al catastrofico grido di allarme di Edmund Gosse, che invocava di far qualcosa per fermare un’«alluvione di mediocre poesia» che  stava rendendo, a suo parere,  superflua e ridicola «l’arte del verso». Eppure, nota Cortellessa, oggi è proprio nel 1971 che i critici collocano «l’apogeo della presenza sociale della poesia (e in generale della letteratura) nel nostro paese» (e fa una sfilza di nomi: Montale di Satura, Pasolini di Trasumanar e organizzar, Raboni di Cadenza d’inganno, la Rosselli di Documento, il Pagliarani di Rosso corpo lingua oro pope-papa, lo Zanzotto del Galateo in bosco, il Sanguineti di Postkarten, ecc.).  E, aggiunge,  mentre Gosse strepitava, erano appena uscite le raccolte di The Waste Land  e di Tristia  di Mandel’štam e poi venne Ossi di seppia. Messo questo argine alle geremiadi sulla poesia, Cortellessa propone la sua tesi: «Non so se vivano oggi poeti paragonabili a Shelley o a Leopardi, o se quest’anno nascerà il Baudelaire del 2057. So che creare un essere dentro il nostro essere e farci abitare un mondo diverso resta il compito - la missione - del poeta. Oggi come due secoli fa, però, questa missione diventa impossibile se al creare di chi scrive non corrisponde la disponibilità, l’apertura di chi legge». Si richiama poi alla lezione di Raboni: «L’importante è essere ben convinti che la poesia non è né uno stato d’animo né una realtà migliore. È un linguaggio: un linguaggio diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano; un linguaggio  al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario capace di connettere fra loro le cose che si vedono e  quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con  ciò che non sappiamo». E subito dopo a quella affine di Antonio Porta: «La poesia è un’avventura linguistica. Fare poesia significa, prima di tutto, attraversare la lingua nella sua globalità e nei suoi usi specifici, la lingua che è in perpetuo movimento, la lingua quale mare in tempesta. Fare poesia è navigare…». Infine, Cortellessa  cita Klee:  all’arte moderna, ivi compresa la poesia, «manca un popolo», che deve essere cercato e anzi prodotto, «offrendo a esso, in sua assenza, tutto quello che ha». E non manca un riferimento a Deleuze, che riteneva «disgustoso» chi riduce la letteratura «ai propri affari privati»: è «veramente la letteratura da supermercato, da bazar, da best-seller, la vera merda» Al contrario, scrivere significa cogliere qualcosa della vita che «scorre in te».
Breve mio commento d’accompagnamento: il saggio rivela come  un giovane critico  accademico (Cortellessa è del ’68) si misuri con la crisi della poesia. Condivido  solo in parte  la sua difesa (umanistica) della poesia. Mi pare troppo limpida e poco inquieta, attaccata ad una delle tradizioni possibili (Raboni, Porta, Deleuze  nel suo caso) e tutta orientata su una «passione del fare» alimentata da una soggettiva di ascendenza romantica, che pare non tener conto e sottovalutare l’indagine sul contesto storico in cui la poesia deve operare. L’attraversamento della lingua nella sua globalità e usi specifici, la supplenza da parte dei poeti di un «popolo» mancante ( il termine ‘popolo’ è romanticissimo…), mi paiono indicazioni alquanto vaghe rispetto alla direzione di lavoro che era stata degli “antenati” (Fortini, Pasolini, ecc.) antinovecentisti e antiermetici. E tuttavia va aggiunto , a scanso di schematismi, che anche una poesia esodante, come quella a cui io penso, non deve iquidare i problemi della soggettività facendo spallucce.






[1] «Una volta erano i poeti - Fortini e Sanguineti, Pasolini e Zanzotto - gli scrittori-intellettuali la cui parola aveva maggiore udienza nell’opinione pubblica. Di quegli scrittori-intellettuali - si mastica amaro - s’è perso lo stampo. L’importanza della poesia si sarebbe dunque ridotta col ridursi, in generale, dell’incidenza della letteratura nel frastornare dei media. Ma anche in una cerchia d’interesse più ristretto, diciamo pure specialistico, il senso storico della poesia sarebbe sempre più ridotto. Nessuno la legge, nessuno ne scrive, nessuno ne parla. Se non i poeti stessi».

5 commenti:

Unknown ha detto...

Oggi non ho letto questo libro, forse domani :-)..tuttavia m'interessa assai il tema, anzi passiamo subito al plurale: interessano assai i te-mi ma non per un ego smisurato mi prendo la concessione di parlare al plurale, che peraltro è da distinguere(per poi vedere come ricomporlo) fra chi si dedica al mondo del poetare (poeti e critici) e chi vuole risuonare o vibrare anche con questo linguaggio (lettori) .

Sottilizzare fra chi parla ancora con il termine "popolo" -quando è chiaro che oltre che essere stata una parola (per)truffa(rlo meglio), è da riferirsi anch'essa al plurale(popoli)- non conviene, bisogna invece andare alla sostanza per dare una svolta sul "come"/modo/mezzo per costruire la molteplicità verso un linguaggio che, rispetto ad altri ( musicali, cinematografici, arti visive etc etc), non è e non ha, di per sé, mai avuto qualcosa fuori o da abbinare alla forza della parola. Tutto si regge sul suono-parola, capace di far risuonare "dentro" ogni altra s-cultura , alfabeto, numero e colore e appena infatti si contamina del mondo dell'immagine, che evoca male, o da cui viene finanziata per formattare i gusti, succedono i disastri fra chi rivendica un suo valore e chi invece intravede ogni pericolo politico/critico / sociologico di essersi fatta espressione della mutazione antropologica complessiva.

Di fronte a tante considerazioni, concludo con un'altra, prendendomi la licenza di far rivoltare la tomba i mostri sacri ricitati in questo post..non credo convenga a questo punto della storia e della poesia, continuare a castrarsi vuoi comparando(si) con dei bolidi o number 1 ( che per primi,visto il loro pathos, potrebbero pure essersi stufati di essere diventati anche feticci), vuoi ideologizzando o rimurginando se un nuovo autore o meno, centrato o meno nelle sue consapevolezze storiche prima che poetiche, sappia portarle nei suoi versi. E' chiaro che il fenomeno riguarda i due estremi, sia di chi non ne ha, sia di chi ne ha così troppe da diventare ridicoli entrambi. Il lettore non è cretino e li scarterà entrambi come al cinema(tranne che in quel cinema volutamente sostenuto e sviluppato per fare propaganda che influenza tutti quei "consumatori" a cui l'"apparato" poetico per ora e da sempre non si è mai rivolto per cambiare le carte in tavola).
"la verità sta nel mezzo" anche nel caso di poesia ad alto contenuto estremo di linguaggio, solo che per ora il mezzo oltre che negato come centratura nelle mille e piu voci che un poeta dovrebbe essere capace di sentire in se stesso (tanto piu in una contemporaneità dove le finestre sul mondo sono infinite e dovrebbero " popolare" la sua anima), è mal organizzato e negato come canale "media" strade per raggiungere con le sue visioni le visioni di quelli raggiunti dalle solite visioni.

giorgio linguaglossa ha detto...

Ho avuto modo di leggere il libro di Cortellessa (che ritengo il miglior critico di poesia oggi in circolazione in Italia). Detto questo, avrei molte cose da dire per rispondere (indirettamente) alle tesi del critico romano ma non lo faccio, perché l'ho fatto in un libro di 150 pagine (molto fitto e percussivo) che uscirà in gennaio dal titolo eloquente "Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea" (con Società Editrice Fiorentina).
I problemi da esaminare sono molti e complessi e non facilmente riassumibili in un blog... inoltre, molti autori di cui io mi occupo nel mio libro non sono presenti nel testo di 774 pagine di Cortellessa, di molti autori di cui si occupa Cortellessa nel mio libro non v'è traccia alcuna (e viceversa)... ma la stima e il rispetto che nutro per le tesi di Cortellessa non mi hanno impedito di riformularle in modo diametralmente diverso.
Il problema è sempre quello, credo: È esistito in Italia un "parametro moderato"? sia nel primo che nel secondo Novecento?
Dal modo in cui si imposta il discorso (e se lo si imposta) ne discende necessariamente un certo ordine di "valori" e un certo rango di narrazione. I valori in letteratura sono "valori narrativi", rispondono se li interroghi, non rispondono se non li interroghi. Anche la letteratura obbedisce alla regola dell'interrogazione: se la si interroga essa risponde, se non la si interroga essa non risponde.

Anonimo ha detto...

Rita Simonitto

Volevo riprendere 3 punti, interconnessi, che mi hanno sollecitato delle riflessioni.
Li espongo così, un po’ frettolosamente anche se, mi rendo conto che meriterebbero maggiori approfondimenti.
a) *Negli ultimi venti anni a latitare è stata proprio la critica*. Naturalmente Cortellessa fa riferimento alla critica letteraria, alla letteratura che oggi viene vista come *microcosmo sempre più debole e appartato*. E sono più che d’accordo, visto che di quella egli sta trattando. Ma, se veniamo a considerare il macrocosmo, vediamo che, in realtà, ciò che via-via è venuto sempre meno è stato il senso critico, travolto dall’equivoco che ‘criticare’ sia equivalente ad opposizione o a mero giudizio (a sua volta strutturato secondo i canoni del vero, del buono e del bello) piuttosto che come atteggiamento mentale, disposizione cognitiva.
Dall’etimo “krino” è stata selezionata soltanto una parte omettendo le altre due operazioni che (oltre a quella, appunto, del decidere, del giudizio) concernono il separare, il distinguere: processi che implicano passaggi complessi che riguardano il tenere e il lasciare. Quale rapporto ci può essere tra la tradizione e il nuovo, ad esempio.
b) *Se al ‘creare’ di chi scrive non corrisponde la disponibilità, l’apertura di chi legge*.
In questa società onnivora assistiamo, purtroppo, al massimo dell’apertura: c’è un proliferare di iniziative che danno in pasto il Kamasutra degli accoppiamenti, intrecci, tra varie discipline o forme artistiche in un crescendo di esaltazione dionisiaca dove chi più ne ha più ne metta.
c) [citando Klee] *All’arte moderna, ivi compresa la poesia, manca un popolo, che deve essere cercato e anzi prodotto, offrendo a esso, in sua assenza, tutto quello che ha*.
Proprio per quanto detto sopra, bisogna invertire la tendenza. Il popolo non deve essere cercato: è quello che ha fatto finora la società dell’entertainment, inseguendolo e creando appunto il massimo dei consensi ma il minimo della consapevolezza civile. Una supina accettazione che non prevede alcun interrogarsi.
Dice Cortellessa: *So che creare un essere dentro il nostro essere e farci abitare un mondo diverso resta il compito - la missione - del poeta*.
Farci abitare un mondo diverso implica cercare di capire il senso di questo mondo esistente, dei suoi processi di cui vediamo solo la parte di superficie mentre c’è una parte cospicua che rimane nascosta. E la poesia dovrebbe essere implicata in questa ricerca tenendo conto che essa è uno strumento linguistico altamente efficace, *un linguaggio al tempo stesso accuratamente premeditato e profondamente involontario capace di connettere fra loro le cose che si vedono e quelle che non si vedono, di mettere in relazione ciò che sappiamo con ciò che non sappiamo*. Ed è anche un linguaggio particolare che (sempre citando Raboni) è diverso da quello che usiamo per comunicare nella vita quotidiana e di gran lunga più ricco, più completo, più compiutamente umano*.
In questa situazione è ancora più necessario, come esplicitamente chiede Ennio * tener conto e non sottovalutare l’indagine sul contesto storico in cui la poesia deve operare*.

Anonimo ha detto...

..."So che creare un essere dentro il nostro essere e farci abitare un mondo diverso resta il compito -la missione del poeta"
Molto mi convince questo pensiero .

PRESENZA.

Non ti lascio vecchio mio pensiero
sulla pietra a seccare senza respiro
nè ti divinizzerò tu sei nato libero
verrà a precederti il tuo seguito
ed io ti sarò flangia e vite
potrei solo immaginare
la tua fine.

Emy

Anonimo ha detto...

@ a proposito di Cortellessa

prendiamo atto che la poesia delle effrazioni dell'anima si è così definitivamente modellizzata sui linguaggi mediatici delle rubriche del cuore dei rotocalchi femminilizzati; si è così verificata una vera e propria femminilizzazione (e metallizzazione) del linguaggio poetico che oggi si presenta come un fenomeno di larghissima diffusione, un fenomeno che ha del magico e dell'empatico. E anche del ridicolo. Ma in proposito mi sembra che Cortellessa preferisca salomonicamente evitare di pronunciarsi.
Inoltre, non ritengo che la poesia debba essere difesa, un critico di valore come Cortellessa sbaglia quando si addebita l'onere di difendere la poesia contemporanea. Essa non va difesa, anzi, va criticata in profondità. E se Cortellessa sceglie di difenderla, evidentemetne avrà le sue buone ragioni, la difende perché vuole esercitare la sua egemonia sul genere poesia, la difende per ragioni di supremazia politica. Ma poi: a che pro? La poesia non va né difesa né attaccata, sono concetti sbagliati questi; la poesia va criticata. È questo il compito del critico, credo.

Luciana Sanguigni