venerdì 28 settembre 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Nell’oltre delle cose"
di Giovanni Parrini


Giovanni Parrini Nell’oltre delle cose interlinea, Milano, 2012
 
Se si dovesse racchiudere in una definizione il lavoro poetico di Giovanni Parrini, si dovrebbe parlare di poesia della disseminazione prosastica in tutte le sue tonalità e modalità stilistiche, da quelle incidentali e laterali così forti da sconfinare nel loro opposto, a quelle, diciamo così, direttrici, alle corsie centrali, che appaiono più limpide, distese, con alternanza di penombre e di chiaroscuri. Da un lato, Parrini preferisce la raffigurazione di un quotidiano dimesso, con illuminazione laterale, direi di transito, temporalità del transito oltre le cose; dall’altro, c’è il progetto di indicare le «cose» come se fossero osservate da un finestrino di un treno in movimento, dove non sai se siano le «cose» in movimento o il punto di vista dell’osservatore.
C’è un via vai, un affollamento, un affoltamento delle «cose», un infoltimento delle essenze delle «cose». E qui la gamma stilistica di Parrini mostra una tenuta encomiabile, risponde in modo problematico alle esigenze del canovaccio tematico (mi si passi l’espressione di gergo); a mio avviso, là dove Parrini introduce una maggiore variabilità  sintattica e stilistica con inserti metaforici e polinomi perifrastici la poesia ne guadagna in incisività e mordente. Potrebbe essere questa la direzione da seguire nel futuro dell’autore.
Il titolo non casuale Nell’oltre delle cose  vuole richiamare il lettore ad una migliore attenzione, intende richiamarci alla esistenza di ciò che sta oltre le cose del quotidiano e dell’apparenza. Parrini impiega un linguaggio basso-colloquiale, cerca di tracciare un colloquio con il lettore, di metterlo a suo agio senza precludersi però la possibilità di introdurre delle sottili variazioni interne, dei distinguo, delle eccezioni. Il noto assioma secondo il quale «il linguaggio esiste indipendentemente da noi» ha il suo correlativo nell’altro: «le cose esistono assolutamente e indipendentemente da noi, per esse non si pone il problema del senso e neppure quello della significazione», stanno lì, al di fuori di noi. Esse sono. Ecco il punto. Per Parrini una visione trans-oggettuale e trans-soggettuale del linguaggio è il criterio che lo guida in questa ricerca del senso (il significato delle cose); Parrini non indica mai in modi prescrittivi là dove ci sono le cose ma le lascia intendere, le lascia nel luogo dove la loro presenza ne tradisce l’esistenza. Certo la posta in gioco è alta e impegnativa: narrare il quotidiano da un punto di vista che sta oltre le cose significa adottare un linguaggio idoneo alle premesse da cui parte. La scelta del verso libero è in tal senso azzeccata, come azzeccato è l’alternarsi di versi brevi, brevissimi e lunghi come ad indicare quella irregolarità e dis-continuità di cui il «reale» si fa porta-voce e che la poesia deve raccogliere se vuole essere all’altezza del suo compito. Ma è un processo ancora in fieri questo, e vedremo nelle prossime opere la direzione che adotterà l’autore. C’è ancora tempo.



C’è ancora intorno il gesto quasi infranto,
l’eco che frana piano nel silenzio,
il bianco abbacinante dello sterro
torrido d’un’estate,
il sole fino al tremito del buio:
tra un sorriso ineffabile,
certo ancora di sé
e una mano richiusa sul folto degli eventi,
l’ho vista illuminarsi
la pagina lasciata
candida su una pausa interminabile.

*
Nella prima mattina, il paesaggio
riconosceva le mani piccine,
guidate dal padre,
che avevano avverato, dopo il sogno puerile,
le colline declivi fino all’umida piana di compensato,
la galleria che inghiottiva i convogli,
all’angolo del salotto,
gli abeti scuri guardiani del deposito,
alla parete opposta,  
coi sei binari usciti dalla solita scatola d’anni addietro,
e innevati col talco.
Dalla tenda s’alzava un’alba morbida,
fragrante di caffè,
e i paesetti uscivano dal buio della stanza.
Il regalo più bello
fu la stazione in mezzo alla campagna,
un marciapiede solo, di cartone pressato e Vinavil.
“Papà, salgono e scendono poche persone, qui, vero ?”
La fermata era breve ..... salivano
i soliti soggetti,
addormentandosi nell’automotrice,
che conosceva l’accelerazione,
l’abbrivio imposto delicatamente dalla sua mano,
lungo il rettilineo,
un filo argenteo teso fino ai monti,
quelli di carta, ripensava lui, sorridendo,
disposti proprio là, nell’angolo del salotto,
dove il treno imbucava la galleria
e ne sarebbe uscito,
per perdersi lontano.

*

L’orologio Universal che avevi
forse da te assorbiva
il pulsare del sangue,
che dall’eliso continua a sentirsi
nel ticchettio tenace e delicato,
proprio com’eri tu,
adatto a raccontare gli attimi della storia nostra,
oltre che a contarli
con le sfere pazienti, intente a collegare
i numeri discreti,
finché non resti nulla del dolore
negli istanti disposti uno per uno,
una somma lunghissima,
lo vedi,
tanto quanto quel sogno, che mi trova
tuo fratello maggiore
più che figlio.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Lo sguardo che proviene dalle cose dilata gli istanti, affolla lo spazio e il tempo. Immobilizza e fa ricordare certi interni di De Chirico.
E fa pensare a De Angelis l'osservazione ribaltata, tra chi o cosa guarda e ciò che è guardato (il paesaggio / riconosceva le mani piccine). Ma senza cupezze esistenziali, senza interrogativi da risolvere. Inoltre, a differenza di De Angelis, gli inserti prosastici non appartengono al parlato, il "linguaggio basso-colloquiale" (n.L.) è scopertamente narrativo nella formulazione (quelli di carta, ripensava lui, sorridendo). Se ci vedo una novità è qui.
Poesie levigate, ma scritte agilmente, dove si tiene conto dell'insieme senza che s'inciampi in pretestuose evasioni.
E' vero che si ha la sensazione di un "processo ancora in fieri", ma non so, dirlo su tre poesie…
Piaciute. Grazie.
mayoor