domenica 16 dicembre 2012

Giorgio Linguaglossa
Su "Per tre lune"
di Elisabetta Maltese



Elisabetta Maltese Per tre lune La Vita Felice, Milano, 2012


Parlare di un libro di poesia significa in qualche modo parlare della questione della Lingua, ma parlare di una questione linguistica è un modo di parlare della Questione Nazionale. Ora, chiediamoci: qual è oggi la questione nazionale? Qual è l'interrogativo fondamentale che la Nazione pone alla Lingua? C'è un interrogativo? Ecco, io rispondo che NO, oggi, nelle mutate condizioni del Dopo il Moderno la questione della lingua non si pone più, o almeno, non si pone più nei termini con cui l'ha posta Pasolini, oggi non si può più parlare di «omologazione» televisiva dei linguaggi; di fatto, i linguaggi televisivi si sono aperti a tutti i linguaggi, bassi e non bassi: da tele Maria alle emittenti di spogliarelli, dalle emittenti di insulti show ai talkshow non c'è distinzione: l'alto viene conglobato nel basso, il destro con il sinistro. E questa indistinzione, questa simmetria del disordine è un dato di fatto dei linguaggi televisivi del Dopo il Moderno. Simmetria del disordine peraltro che ha attecchito anche i linguaggi poetici odierni.
Dirò di più: oggi parlare di una emergenza della lingua e di una questione della lingua è un modo imbonitorio per non parlare dei problemi che linguistici non sono ma che sono reali: l'impoverimento di larghe fasce sociali, la perdita di una, due e forse tre generazioni di giovani che non entreranno mai nel mondo del lavoro. Oggi i problemi sono scottanti e reali, la RECESSIONE ci ha portati all'improvviso di fronte al MURO BIANCO dei problemi reali. Altro che Oblio dell'Essere! Qui l'Essere ci sta di fronte con il suo crudo e nudo postulato di «verità» nuda e cruda.


Il problema della Lingua e del linguaggio poetico è altra cosa. Direi, per farla breve, che il linguaggio poetico è un «traduttore», un «traghettatore», un «riduttore» dei veri (reali) problemi in un'altra dimensione, che è quella della «sfera dell'arte» (se mi si passa l'espressione).
E qui il problema si pone in un altro modo: che tipo di riduttore? che tipo di traghettatore? che tipo di traduttore? E per tradurre che cosa? E per chi?...
E qui i problemi si ampliano e si moltiplicano...

In questo suo libro di esordio Elisabetta Maltese parte da un punto fermo, indubitabile: «Io sono il mio pronome / precursore in-attivo in attesa». L’«io» quindi come apparizione di un «pronome», una entità linguistica tra altre entità linguistiche, indicatore di un’altra cosa, segnalatore di un altro reale, di una cosa che vive tra le altre cose in un’altra dimensione, non più gassosa come quella della Lingua ma dura, rocciosa, pesante come quella misteriosa del «reale». E il libro sarebbe stato davvero interessante se l’autrice avesse indirizzato la sua indagine su questa problematica, ma il fatto che il discorso poetico della Maltese abbia poi sviato dall’assunto di partenza della scomparsa dell’io è indicativo di una difficoltà oggettiva di porre quel problema al di là dei termini puramente linguistici e stilistici per la mancanza di un retroterra stilistico sottostante.
La poesia della Maltese resta come impigliata entro le maglie che la significazione modellizzata della poesia femminile ha indotto nell’indotto, come se avesse smarrito il contatto con le strutture di senso soggiacenti nel linguaggio naturale; di qui la modellizzazione sonoro-ritmica della sua poesia simile a una colonna sonora e la frequente assenza di una punteggiatura che funga da guida e da argine alla fluidificazione della significazione. Cosicché la significazione si dilata in significanze autoreferenziali, contestualizzate in ritmi sonori con prevalenza assoluta dell’acustica sulla grammatica, della fonetica sulla fonemica, della fotosintesi sulla chimica della materia, e così via, alla ricerca di una omogeneizzazione stilistica che non si dà per legato testamentario o per magia.

Giorgio Linguaglossa

Endecasillabi

Io scrivo per legittima difesa
sono in piazza e lo striscione è di rosso
rabbia per chi non può persino inchiostro
il suo diritto e il mio dovere urgente
grido a rigo di voce sulla carta
di donne figli uomini e di animali
fatti minimi storie da sfatare
che non mi basta il dire o ragionare
è troppo poco – fa vergogna – e allora
conto le mie sillabe come note
di un notturno ne seguo l’incombenza
il suo eseguirlo adagio come posso
restituisco alla mia fortuna il volto
in ombra a rendere più sopportabile
del giorno il piccolo da trasformare.


Carta vince pietra

C’è una misura sottile uno spazio
fra le parole quasi un punto e virgola
volubile come nuvola a marzo
incerto come respiro di donna
in resa o amore. È distanza difficile
da misurare e a guardarla il sorriso
si finge sasso bianco e scintillio
di sguardo, confuso. Eppure
chiude il cerchio delle dita intrecciate
prima del dopo libero di andare.
e si rinasce si rinasce sempre
ché carta vince pietra lo sappiamo
da bambine



Vuoti a restare

Mi necessita morire, di tanto
in-tanto una non esistenza giova
un vuoto dove riporre le cose
un ciclico ricambio cellulare
ché nata femmina educata madre
mi permetta di partorirmi donna
dichiarando vita. Tu che sei nato
uomo (ti prego) cerca di capirmi


Autocombustione

Io sono il mio pronome
un precursore in-attivo in attesa
della pausa all’attimo precedente
la paura che non teme la paura
ma mi scava – sono la stanza dove
la parola muore prima di essere
abitata. In costante mutamento
mi riduco per seminare l’acqua
piantando le mie scorie sulla carta.
Del più e del meno

Se davvero vogliamo chiacchierare
di presenza e di assenza
dobbiamo prima fissare i confini
scegliere il taglio di sguardo, se può
essere verticale
in cerca di risposte sul valore
oppure orizzontale a superare
prospettiche distanze.
Dimmi se vuoi parlare di cellule
di termodinamica
del nulla si distrugge
o improvvisiamo dai parliamo ad occhio
del come io ti sento se mi avvicini
la sedia attaccata alla mia a sfiorarci
gambe labbra in un incrocio di assaggi.
Non basta in questo adesso?



Limoni

Non mi resta che andare.
Prima devo avvicinare le costole
fiocando ogni battito da sipario
(ultimo) sguardo
e intrecciata a una biscroma sarò
nota. Se torno sarà per posare
limoni gialli sul tavolo.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Buongiorno.
Vorrei ringraziare Ennio Abate e Giorgio Linguaglossa per l'ospitalità in queste pagine e per il tempo che mi è stato dedicato. Grazie.

Elisabetta Maltese