giovedì 10 gennaio 2013

Fortuna Della Porta,
Poesie.




Giorni fuggono a vela dietro il vento,
corni del dolore, pane impastato di ferro
compendio del vortice eterno, pantano ove urla
dispendio di fiato, la mia apocalisse è scontata

Coltivo tempo  al boia, questo mi piange,
arrivo, poi, in mare annegato, fuoco arso,
tinto di funebri drappi, rugiada infernale, -non fatto-
Avvinto nel caos, non domandare. Taci, per carità.

Avvicina un poppante che sugge, avvertilo, questo sì,
 mattina di  lumaca incoscienza, affettuoso 
alabastro la pelle e per lui un raggiro alla porta.     

Vincastro di carbone, ahimè, minatore imminente.
Arcobaleno di sangue e battito del cuore
ameno frullo solo se amante mi bacia in bocca.



***

Esalate, cembali, la madida
nota.
Salvatemi dalla persecuzione
la notte
che strappa identità e sequenza
e s’impadronisce le spoglie
di qualsivoglia fantasma- pensiero.
Siate simili al leone che la foresta
bracca
e in assolo regna la culla-limen.
Approfittate di me.
Innalzate, cembali, un’armatura
al vuoto
che rapisce le vergini in boccio
al desiderio e me come reietta.
Lo chiedo anche al flauto o alla cetra
che parimenti volvono in sonoro
epilettico.
A chiudere le palpebre al buio
come  alba alla frattura
dell’argine
con l’ignea sua stilla di luce.
Non mi protesto innocente:
semplicemente sono.                                                                                    

***

Ah, Poliremo, è ben arduo
il passo al tuo esercito in parata
dai riccioli gialli e il piglio rattenuto
così sovrabbondante nel campo
pigmentato la smisurata pupilla
sotto il grande cielo
irrigidisce lo slancio
lungo i raggi spigliati e
solo la testa sul lungo esile collo
risale la fotosintesi
devota e fiera. Infaticabile
all’orizzonte la tempesta già
affretta gli stormi imminenti
e presto l’occhio del vento
pareggerà la piana da ogni rigoglio:
Coleridge, abbi pietà,
trattienila allo scoglio
tu che sai, dai girasoli d’oro.

***

Accarezzo un acquarello
di areca
su un marezzato arenile
in battimare
o carena
areno
una solare parentesi
nell’area ilare
impareggiabili are
mi apparecchio
da che
nella regale tartarea
parentela lunare
orbicolare
la regina
il mio lare
faretra di nettare
mi carestia
dell’amarena
carente
calcarea
pare
ed io amareggio
del mio speculare  nerastro
rimare

***
                                                                     
Per strade chiuse in un chicco di riso
per strade lasciate dal flutto, inorgogliose
straniere, night in the sockets rounds,
pulsa la notte-vino spillata dietro il sipario

rabbrividisce un pensiero dai capelli taciti
di specchi deformanti la spiga di grano.
Qui in questa strada sporcata da tutti i tempi
da ogni premonizione e da avanzanti futuri

divorati in piccolo grumo da tutti gli istanti
un gatto ronfa e un orfano al muro del pianto
un suono non oltrepassa lo spessore del marmo
per strade gelate per pietre tombali per cento peccati

per strade la notte-agonia si perde sostanza.
Impicca l’avventura all’albero del doppio falso
per strade nude desiderio sanguinolento di carne
e farsi-sfarsi nella lattiginosa acacia. 

***

Dalla Libertà passo alla libertà
ove impossibile il di e il da
ma per quanto scali la elle
uno staffile da lacchè.
Ma se mi cadranno i capelli
la quotidiana decenza
giuro che acquisto un tupè.

***

Gli dei sono fuggiti dal mondo
chi insegue gli dei? In fondo
siamo tutti in errore
mai rasi e velluti -né cuore-
mai lilia speranza o ragione
qui è casa di diavolo o persuasione
di cecità.
Sondo-sconto  me ateo vibrione
di infedeltà.

***

 

Hands grumble on the door

La lucciola sbatte il ciglio all’intrepida luna
e un lemure mangia alle mie coste d’avorio
la cavolaia alla resa del fiore, fardello di
novembre, il velo catatonico della notte
chiuso fra quattro mura, lo sciame dei pensieri
per non vedere- intendere fa finta di niente.
Il sapere discolora a morte linfa di vetro
e  muove in ditirambo smania e amaro vuoto.
Non posso aprire, non riconosco nessuno.

***
I celebrate myself, and sing myself                                                                                       
(Walt Whitman)
Canto il me. Stono l’atletica del me
l’energia originaria. Le mie orecchie
otturate, io nazione del male.
Me male  tara e vento sono muta

prima di morte  e cieca avanti alla
terra. Da celebrare neanche fiore
in perfetta salute, alcuna  voce
di fede. Mio deluso germe  coevo,     

ricordo il dardo scoccato a vuoto
dal  faro-chimera sul mare ora spento.
La Natura non ha da confidarci

che deserto di passato e venturo
e a squarcia gola urla sui ceppi: 
Pape Satàn, pape Satàn aleppe!

***

Ci sono giorni chiusi
dal mio terzo occhio:
fragile tenda, insalda dote i sensi
e all'improvviso viòla di extrasistoli.
Sulla battigia un giglio
e cielo scoppiato al tramonto.
Uno sguardo che mi teneva
così mi sembrava al momento.
Il mondo fermo  -da odalisca-
sull'orologio di ogni campanile.
Compiere qualsiasi ora
non è la notte
neppure la morte
solo un intervallo d'extracorpo
una nota sola biscrepata
per volare
dove toccai
come potrebbe  essere sospesi.

(da: Diario di minima quiete, ed. LietoColle 2005)

***

La Terra di tutte le terre sulagna e carnale
sdraiata al sole
ammuinata dai venti
olim ospitava ligustri e agavi.
Con la fronte imperlata di neve
volgeva ‘n cielo l’azzurrità dello sguardo.
Ma nella quietudine delle notti abbrunate
dall’imo impietroso dei monti
invocava un amante dalle labbra madide.
Da ogni crepa alluceva un lamento
abbrusiato come un torrente
desuliato come pelle arida.
Al davanzale dell’ovest una volta
la Luna ricolse il suo pianto
e le stelle sorelle, accumpagnate da Venere,
sul far del mattino sciallarono dai setati capelli
dorate gocce di acquazza.
Le forre allora si cummigliarono
di un mare spumiglioso
e la Terra si maritò con un compagno pescoso
di pesci ballerini
onde stormenti e scabre fantasmagorie di flutti
in un arco d’amore di baci e di spruzzi.
Che frenesia d’azzurri!
La Terra di tutte le terre trovò pace
nella rorezza dell’acqua
in quel tempo, quando ancora il mare cantava
e sulla sagliuta il sole si fermava tremulianno a mirare.

Mare, igitur nati in tua liquitidate:
omnia ex te veniunt,
speculum coeli paterque dell’orbe terraqueo.
In quel tempo il piccolo pesce s’affacciò alla rena
e germogliò dall’aluccia
un arto camminante.
-Vai piccolino, vieni nel mondo-
Pure la Terra di tutte le Terre dal cuore di fiamma
accolse la vita sotto il lume dell’emisfero nord.
Sulla neve il sole addisegnò un prato alle greggi
folgorò le corolle dei fiori
tinse di turchino i corsi d’acqua e il mare di smeraldo.

Sole, che l’aria coi raggi ragguizzi
permotore zelante
tu che spargi e accapizzi
arazzi aurei
pizzi luccicosi e delizie azzurrose
grazie per la tua lucentezza indiata
l’esistente rezza terragna
Tu che cotidie zavorri
nello zoccolare del cuore
tale contentezza oculorum
che l’anima s’impazza affatturata.
Sole, che il cuozzo d’acqua
rincalzi quasi adamante di nastri e di sprazzi
che spazzi le latèbre notturne
e i bozzoli dei fiori anche in semenza
sullo stelo in fragranza innalzi
spezza quest’aria fetida
elimina piccozze belligeranti e furbizie
disuguaglianze e tristezze
dalla strozza malezzevole del tempo
slega le corazze viziose e pungenti
ut semper et ubique regnat amor
 il pozzo della terra ammelato di ambrosia
ubi bibendum un sorso di rucezza fraterna
e pur anco uno schizzo salvifico
di conoscenza e pazzia
a ramazzare la via.

(a Flavio Gioia)
Il mare brama gli sguardi sconfinati
e soprattutto le bocche,
le abboccolate bocche,
-vocche aperte, pummarole callose-
che neanche sanno quanto si stennuleja il mare
ma si dissanguano le guance a tragittarlo.
Quelle bocche schiumate col sangue, gonfiate dal tormento
bocche dell’ardimento umano,
bocche tenaci nell’oltrepassare le proprie barricate.
Quelle bocche di parole tonne tonne come un bacio
turbolenti come ruglio o abbagliore
in lotta con l’ignoto
–vocche sempre pronte a canoscere
melograni sgranati, lengua che trase e jesce-
hanno segnato strade d’acqua
intrecciato le dita ai continenti.
E prima ancora delle traversate
un intrepidus Flavio,
se pur mai nato,
dalla parlatura acconcia,
fluido, non sciancato,
‘o ffuoco tra i denti
nu tantillo austero con la spada e col saio
protendendosi innanzi al mare di Amalfi,
capelli alla risacca, cuore gettato ai vènti cardinali,
infilò sulla rotta un ago magnetico
affinché la stella polare sbrilluccicasse ai naviganti etiam nel sole.

(da: Gramaglie e Frattaglie, ed. LietoColle, 2011)


* Fortuna Della Porta
Ha pubblicato in versi:  Rosso di sera,  Il Calamaio -2003- Diario di minima quiete LietoColle -2005- Io confesso  Lepisma –2006- Mulinare di mari e di muri  LietoColle, 2008. La sonnolenza delle cose  LietoColle, 2010. Gramaglie e Frattaglie  LietoColle, 2011. Metafisica dello zero  LietoColle, 2012
Un poemetto di circa 1000 versi; Canto Primo, è apparso sul n. 28/29 del periodico letterario Poiesis nel 2003 diretto da Giorgio Linguaglossa.
Molti i testi in antologie, tra le quali  William Shakespeare, I sonetti, patrocinata dall’università di Berlino. In prosa: Scacco al re è opera teatrale per le edizioni Carta e Penna, 2006; i racconti: Ritratti, Oèdipus edizioni, 2007; e-book:  Labirinti, e-book, kultvirtualpress, 2007; La casa di Gaia, La Recherche, 2012
Scrive articoli su periodici letterari sia cartacei sia on line.



1 commento:

Anonimo ha detto...

Sono uscita or ora dall'abisso ,dai colori, dalle nostalgie,dall'ardore. Quasi sentivo morire il respiro in una fantastica dimensione. Le parole scelte mi avevano inebriata come una gran tazza di buon vino bevuto tutto d'un fiato. Fui abbagliata da quel sole che si fermò"tremulianno a mirare" più non fui "cieca avanti alla terra" e come lui con "o ffuoco fra i denti" quasi scompaio davanti a cotanta bellezza. Grazie Emy