giovedì 24 gennaio 2013

Giorgio Linguaglossa,
Su "Nelle tue stanze"
di Marzia Spinelli.


  
Marzia Spinelli Nelle tue stanze Edizioni Progetto Cultura, Roma, 2012

La sostenutezza formale di questa raccolta di Marzia Spinelli indica appunto che ci sono dei sostegni, delle travi portanti, delle mensole che tengono insieme il calcestruzzo «povero» della costruzione poetica; è indice di ciò che altrove, sul pianeta Terra, viene stimato essere cosa gradita tra interlocutori che si scambiano convenevoli, fatuità e prolegomeni. Le poesie sono un po’ i prolegomeni a una vera vita che ancora non c’è.
E questa raccolta sembra quasi scritta da un poeta che non si vede (che passa tra le ombre domestiche che vengono scambiate per luce) per un mondo che non c’è, che ci parla di una estraniazione dal punto di vista di un estraneo alla vita, ci parla di un mondo che sembra essersi dileguato: l’infanzia, la memoria, la stanza vuota, l’ultima estate, le stanze abitate, disabitate.  «Nelle tue stanze» potrebbe sembrare un titolo eccessivamente generico proprio per quel suo restringere il campo semantico della significazione ad un luogo di quotidiana frequentazione. Un luogo (quello della «stanza» con tutta una serie di variazioni) con la consapevolezza che non in esso c’è il salvagente, un luogo che è diventata la soglia di una autenticità perduta, smarrita, il luogo dei luoghi, quei luoghi che oggi sono considerati luoghi turistici, moneta corrente, che passano di mano in mano al pari di una moneta, che non indicano nulla di significativo. C’è qua e là la declinazione elegiaca che appare in filigrana:

Tace il pianto
sigillato tra le pietre
dove la figlia padrona fuma e vende quarzi,
dice buon giorno come te
la madre quando arriva, una scossa della testa
è la risposta all’offerta della colazione
alla figlia che non la vuole, ora che la madre è al bar
dico alla figlia – sarebbe piaciuta a mia madre questa collana –
ma lei tace, si volta con un sospiro, ora che la madre è tornata
va a sedersi da padrona la figlia
in faccia alla madre che accende una sigaretta e dice grazie come te
nell’immobile silenzio delle pietre
guarda la figlia darmi il bancomat,
ha capelli come i tuoi questa invisibile piccola statua,
i gesti lenti e l’assenza composta,
digito il pin con le dita di onice
alla figlia padrona che annuncia saldi
volevo dare un segnale,
ma solo per me la coincidenza, la pena, le pietre da sgranare,
in un qualunque mattino caldo
d’anniversario.

La Grande Storia (con la iniziale minuscola) è qualcosa che è andato nel dimenticatoio, che è caduta in disuso assieme alle retorizzazioni della poesia della Grande Storia, anch’esse finite fuori corso, tutte intere con i loro bagagli sinfonici. Anche la tematizzazione di queste composizioni rivela quel qualcosa di effabile, di intimo e, insieme, di accessorio, con cui Marzia Spinelli ama costruire i suoi «pezzi». Si percepisce che c’è come un fondale che è franato dietro queste poesie, il fondale che un tempo aveva nome di «passato», «tradizione», «retorizzazione» etc.  I frasari di cui è ricca questa poesia sono pezzi realmente tolti di mezzo dal mezzo, non è più un mezzo parlare, il «balbutire» montaliano, è un parlare piano, intimo, prosaico che l’io lirico rivolge alla memoria.
 È una poesia gentile che adombra il piccolo mondo antico dell’io e delle sue formalità.
Come scrive Adorno: «Dietro la demolizione pseudodemocratica delle formalità, della cortesia vecchio stile e della conversazione ormai inutile e sospetta? non del tutto a torto? di non essere che pettegolezzo, dietro l'apparente chiarezza e trasparenza dei rapporti umani, che non tollera più nulla di indefinito, si annuncia la pura brutalità. La parola diretta, che senza dilungarsi, senza esitare, senza riflessione, ti dice in faccia come stanno le cose, ha già la forma e il tono del comando che, sotto il fascismo, i muti trasmettono ai muti. La semplicità e oggettività dei rapporti, che elimina ogni orpello ideologico tra gli uomini, è già diventata un'ideologia in funzione della prassi di trattare gli uomini come cose.»*


Giorgio Linguaglossa


* (Theodor W. Adorno - Minima Moralia / Meditazioni della vita offesa - Einaudi, 1994.)

 

VIII


a dimenticare la voce
ci vogliono anni, mi dicono.
Parlano come sapessero
tutto dei morti. Hanno pena sincera di me,
straniera approdata.
Stesso dolore, stesso cuore pesto,
abisso che si tace, se ne parla da soli
come colloquiano i matti.

  
 X

le foglie rosse nella tua stanza,
inutile raccolta, insostenibile il vuoto
affacciato su questo nulla,
peggiora di giorno in giorno,
inutile l’acqua e l’aria,
le più frantumate s’insinuano agli angoli
del parquet divelto,
non avvertono, non lasciano traccia
le più leggere che volano via.



XIV


l’amo della memoria
è una corda pendula, il gancio
su un’attesa da riempire,
pestando a terra come fosse uva.

se agronomi della vita o geometri dell’aria
lo sapremo alla fine. Ora so che è semina il Tempo,
porta tutto a vendemmia, anche le stelle.



XVII


In sogno scopro felice che sei viva,
ma l’abbraccio non ha presa,
infilo gesti in un’ assenza
di attrazione,
dura finché chiedo se sono
alla vista, al tatto, di qualcosa.
Dovrei essere anche senza di te,
risponde il corpo che formicola.


XIX
solo i poeti sanno la nascita
segnata dalle stelle, la veglia di luce
su le colpe che diventano preghiere,
su quali chiodi fissi vigila
il pieno e il nuovo della luna.
Nel tempo che dormiamo c’è un arresto
o un ignoto accelerato
dalla staffetta dimenticata della morte.


XX

Siede il Novecento
su la tua schiena curva
di superstite

air bag di bombe e di rese

era cibo la Storia nel guscio
chiaro dei più limpidi ricordi 
la guerra, il matrimonio, la mia nascita
il diario comune di ragazza

nell’infinito sbando dei venti
e le tempeste
l’arco minuscolo, la parabola,
il perimetro del mio secolo.




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1 commento:

Anonimo ha detto...

Ad alcuni miei amici è inutile dire quanto siano nelle mie corde queste poesie, potrebbe bastare per poter dare il mio giudizio , ma voglio aggiungere anche la mia opinione su questa memoria che appare costruita nell'oggi come colonna, a sostenere un passato che porta vita e onore all'esistenza di ogni poeta che non vuole perdersi nell'inutile labirinto di un nuovo senza radici. Il mio respiro( e spero quello di tutti coloro che leggeranno questi versi), si fa profondo. Grazie davvero. Emy