venerdì 22 febbraio 2013

Rita Simonitto,
Otto poesie.



Il falso muove e vince in poche mosse

Cresciuti tra zanzare e DDT e i tossici amianti
(eppure seducenti al nostro invincibile Walhalla,
la lotta al drago-fuoco sconfitta da una foglia),
e i manifesti di bimbi martoriati dalle caramelle/mine
venute giù dal cielo, la atroce manna dei liberatori...

Credi che solo là si siano aperte le ferite?

O non invece nei crepacci, abissi dove la verità si sperde,
eppure pieni di appigli e sponde cui aggrapparsi,
anche se poi con rovina resi bianchi gli occhi
dal buio persistente che confonde il nemico
con l’amico ecco l’ignavia che sempre si ripete?

(04.08.2011)




Ricordi d’infanzia 

“E con questo basta!”

Nulla di poetico nell’abbassar di ciglia
(forse così si spianano le rughe!)
inquieta obbedienza su cui non si sofferma
il pensiero o la notturna angoscia.

Età dello spavento, ancora infante la ragione,
vuoti coperti da altri vuoti perché dapprima
viene la risposta, accucciate agli angoli
domande, strette le mani a incoercibili vesti.

Oh, frantumate, sbrecciate, misconosciute,
illusorie verità come infruttuosi rami d’olivastro
eppure vimini che legano tenaci!

E questo ancor oggi non fa storia ma cronaca, minimalia,
frun frun, sussulti, gitanerie a impastare
il misero presente di fole antiche inutilmente.

(13.05.2012)



Iniquo paesaggio

Rintanato scoiattolo osservo
smagate colline all’orizzonte. Sotto,
arnie in disuso e lento e raro qualche ronzio.
Suffruticose piano lasciano a sterpate
una scena che fu loro senza maledire
ammorbata l’aria da silenti scannatoi
i tossici gas ora arrivano dall’alto.

Laggiù nell’abetaia alberi dolenti
senza identità macchiano di scuro
un verde residuale che la neve attende
per mimetizzarsi.

Voce non si sente ad urlar bestemmie
e strappi in alternanza l’onnivoro motore
dei tagliaerba. Malavitoso il silenzio
non copre nulla che palese non sia già
nella sua docilità di morte
irrimediabile.

(23.07 2011)



Soggetto di altri tempi 

Per sfinite cicale ormai lontane
la strada e i passi lenti,
la frondosa quercia declinata
dalla fine di un giorno senza più ghiande.

Stracciosa la ragione assedia
la porta della notte
per costringermi a urlare ciò che non posso dire
anche se pensato, si,
oh, sì, pensato, e quanto,
eppure come acino d’uva staccabile
ancora non staccato dal graspo
nero: stiamo morendo.

E sempre più si fa briciola il passato
che come polverina nell’acqua si dissolve.
Ecco la società liquida di minuscole molecole
che si attivano solo in movimenti meccanici,
attrazione e repulsione.

E nella Grande Città che come maccheroni
sforna luoghi comuni
oggi sfilano aguzzi suoni di parole
swish, link, default, fors’anche
un OT accettabile, mi chiedo
che ho da dire, io, soggetto d’altri tempi:
niente che sappia più di maraviglia.

Allora, fare click per uscire.

(13.08.2011)


A specchio

Grano a grano spolpato, torsolo stai là.

Altrove le lingue pasciute
i sazi inchiostri di parole
liriche finestre che spaziano sui tetti
arcuati gatti attendono lucertole
e i muschi d’ombra trovano asili
tra coppo e coppo.

Dove tu guardi invece solo
scaglie nere su ruggine di filo
disossigenato ormai come la miseria,
le miniserie dei giornali accartocciati
da homeless di passaggio
e pure il sole squadra
rami senza foglie
che arruffino il cielo.

Anche su te passarono formiche
come contorte note
di esistenze perse
piegate ai marciapiedi.

In attesa l’ultima Moira.

(03.03.2012)



La fine del ‘soggetto’

“I pittori, e specialmente Édouard Manet, che è un pittore analitico, non condividono l'ossessione delle masse per il soggetto: per loro il soggetto è solo un pretesto per dipingere, mentre per le masse esiste solo il soggetto”.    (Emile Zola, 1867)

Io vengo da “Le déjeuner sur l’herbe” stanca
della solita posa cui Manet mi costrinse
opulenta di carne e inquieta di domande
che fiori raccoglierò da prati (anche se ora bruciati),
che cosa leggerò perché un sospiro
trasformi il canto silente in un quadro altro
e da quel quadro un altro, e un altro ancora
nella sequenza infinita delle rappresentazioni?

Mi si dice ‘ora non più’. E ‘non qui’ mi viene segnalato
da matrici palmari così fredde sulla pelle
mia dove roteando il dito scorre veloce e su e giù
e mi ricorda la potenza del pollice ‘verso’ dei Cesari.

Allora cammino per le strade, a tutti mostro
il mio superato inutile splendore
consapevole che sto solo aumentando
un pubblico ottuso per il mio funerale.

(21.08.2012)



Rami secchi

“Il rasoio di Occam impone di evitare ipotesi aggiuntive, quando quelle iniziali sono sufficienti. Se una teoria funziona è inutile aggiungere una nuova ipotesi”.

Ogni alba presenta il collo al suo rasoio
soleil, soledad, o sangre,  was solle ich sagen.
Ma pure gli orecchini smaltati adombrano messaggi
canaglia dove ogni anello/foro fin dai primi momenti
ha con sè  portato  la sua pena.

Così ramificano congetture come il viburno là fuori
che mostra bruciature dove i raggi killer ne hanno violato
l’interezza eppure insiste e polla in basso
senza porsi domande, non so se alzi le spalle
quando i suoi rami secchi saranno trascinati alla catasta.

(26.08.2012)


La Polonaise


Forte mi prende e strugge l’anima
questa Polonaise che emerge
da isolati laggiù dove sferraglia
un’altra vita di motorette autobus
e ambulanze. Chissà chi la suona
o quale fantasma lo trascina
in questo straniamento di musica e colore
trionfalità mista al sacro odore della morte.
A la danse comme à la guerre…

Un inchino, ecco appare la dama e sotto
il ponte di braccia si muove l’aria delle vesti,
robe à la polonaise, appunto. Sfoggiate
coreografie di un inesausto movimento
mentre là fuori la solita battaglia di sempre
ingannati che si credono astuti
e gli ingannatori a ventri pieni
(A la guerre comme à la guerre).

Mi avviluppa la romantica orchestra mentre
guardo al mio corpo così lontano ormai
dalle sinuose forme che appetiscono e sognano la vita.
Perché l’orologio pulsa a ritmo il tempo ormai
sfiatato del rebelde eppure ancora tragico
come una Jenny dei pirati
che taglia teste oplà, oplà.
Puisque c'est moi
que j'offre le bal…

A la danse comme à la guerre
On y va vaille que vaille.

( 28.01.2013)




















6 commenti:

Ennio Abate ha detto...

APPUNTI

1.
Queste poesie interrogano perché l’autrice sa interrogare e interrogarsi.
E lo fa partendo da echi di storia (DDT, amianti, caramelle/mine) per arrivare agli « abissi dove la verità si sperde» (per memoria letteraria: ricordare la siepe di Leopardi e gli «infiniti silenzi»…) e tornare alla storia dove amico e nemico si confondono e ci sono i segni di una «ignavia che sempre si ripete».

2.
Quanta misera retorica viene spesa di solito sull’infanzia. Qui, invece, è reso in immagini («vuoti coperti da altri vuoti», «accucciate agli angoli/domande, strette le mani a incoercibili vesti») tutto lo sgomento di quell’«età dello spavento, ancora infante la ragione» con le sue «illusorie verità», che - non so se interpreto bene - proseguono nel «misero presente» di noi adulti.

3.
In questo «Iniquo paesaggio», osservato da uno sguardo umano quasi ridotto a quello di un «rintanato scoiattolo», nel successivo «Soggetto di altri tempi», che ancora tra echi d’immagini
di campagna vede dissolversi il *suo* passato e può solo pensare di «fare click per uscire» dalla
«Grande città», che «sforna luoghi comuni» e poi in «A specchio» trovo piena coincidenza - azzardo - tra morte dell’io lirico e morte del paesaggio che esso ancora guarda.

4.
«La fine del ‘soggetto’» mi pare una riflessione profonda sull’arte (sulla morte dell’arte) affidata alla figura femminile nuda che subito attira l’attenzione quando guardiamo il quadro di Manet. Ribellandosi alla «solita posa» voluta dal pittore (tema che rimanda al post di Natasha Trettewey: http://moltinpoesia.blogspot.it/2013/02/natasha-trethewey-da-bellocqs-ophelia_5.html) , sfuggendo alla sua rappresentazione, come è accaduto poi a tanta arte venuta dopo l’impressionismo, questa donna-allegoria può solo mostrare a tutti ( la società di massa) per le strade quel suo «superato inutile splendore».

Mayoor ha detto...

Guardo l'immagine del rudere in copertina e capisco quei saggi che dissero che vediamo ciò che siamo, vediamo fuori ciò che abbiamo dentro, che non ci sono confini tra fuori e dentro. E capisco che chi cercasse la verità, onestamente, non affiderà alla poesia il compito di illudere cercando consolazione. Così, facendo un gioco crudele e sicuramente ingiusto, passo al setaccio queste poesie di Rita Simonitto come fossero una sola. Dentro vi leggo:
bimbi martoriati, con rovina resi bianchi, rughe, notturna angoscia, frantumate, sbrecciate, misconosciute, illusorie verità, misero presente, docilità di morte irrimediabile, stracciona, la porta della notte, stiamo morendo, pubblico ottuso per il mio funerale, collo al suo rasoio, messaggi canaglia, sferraglia un'altra vita, mio corpo così lontano, tempo ormai sfiatato…
E la natura:
- Tossici amianti, la lotta del drago-fuoco sconfitta da una foglia, rintanato scoiattolo, ammorbata l'aria, arnie in disuso, verde residuale, cicale ormai lontane, frondosa quercia, grano a grano spolpato, torsolo, gatti, lucertole, muschi, rami senza foglie, scaglie nere su ruggine, fiori raccoglierò da prati (anche se ora bruciati), ramificano congetture, rami secchi…
Poi le parole del linguaggio d'uso comune, indigeste, rese tragiche, ma inevitabili allo specchio di scrive con sincerità:
- maccheroni, swish, link, default, OT, click, homeless, palmari, killer...
Poi mettere tutto questo nella composizione sorvegliata, non ancora in svendita, per tenacia direi, nel ritmo della sua scrittura che riconosco perché l'avevo già osservata e apprezzata in altre sue poesie.
Guardo leggendo e sento che non mi resterebbe molto da dire perché capisco, e capisco che sono sentimenti nell'aria di questi tempi. E se da un lato so che non ha senso opporsi alla realtà in trasformazione, nemmeno con nostalgia, speranza o filosofiche interpretazioni se dovunque guardi non viene meno l'amaro di una sconfitta interiore, sociale ed esistenziale, non di meno osservo che la poesia di Rita non dà sconti e svolge comunque caparbiamente la sua battaglia quasi che l'obiettivo sia in primo luogo quello di disfarsi di ogni speranza, evitando così altre disillusioni.
Per me questo è il doloroso inizio. La storia di quella rovina, il rudere in copertina, dice che in quel luogo c'era anticamente una selva rigogliosa e che il progresso è fatto anche di macerie. E che al macero oggi ci sta anche la vecchia politica, la polis che non c'è di cui s'è tanto parlato in questo blog. Ora si potrebbe tornare al mondo e passeggiare (scrivere) diversamente, cercando di interpretare non tanto e non solo un misterioso metalinguaggio quanto ciò che manca nel contenuto. La tragedia del reale sta nelle mancanze, ci siamo così assuefatti a vivere d'un mercato fatto di scemenze che abbiamo perso noi stessi.

Ennio Abate ha detto...

A scanso d'equivoci, "l'immagine del rudere in copertina" (cioè: che fa da copertina al post) è quella che ho scelto basandomi su una certa analogia tra l'immagine e la contemplazione delle "rovine" che è la sostanza di queste poesie.

Anonimo ha detto...

da Rita Simonitto

Ringrazio Ennio e Mayor per la opportunità di dialogo.
Mayoor ha perfettamente ragione nell’introdurre il suo discorso con quella citazione (anche se sottolinerei che c’è un confine tra dentro e fuori: per fortuna, anche se oggidì si tenta di perseguire questa formula ‘psicotica’!): è vero che noi ri-conosciamo soltanto ciò che ci appartiene. E ciò che ci appartiene è anche tanta distruttività e non soltanto tanta bellezza. Questo ri-conoscere ci permette anche di dire “questo è mio, mentre questo, invece, non lo è”. Però prima dobbiamo farcene carico, dobbiamo sentire di che pasta è fatto tutto ciò. Ed è questo sentire che ci spaventa per cui cerchiamo di allontanare da noi ogni bruttura o di giustificarla o di riappropriarcene con modalità ‘estetizzanti’: il ‘brutto’ come opera d’arte, ad esempio.
Quanto alla foto di apertura, devo dire che Ennio ha davvero una dote squisita rispetto alle immagini che sceglie, questo vale ovviamente per me. Riescono sempre a far emergere ulteriori aspetti profondi legati a ricordi (miei) sepolti in tempi lontani. L’incendio di una stalla al momento della ritirata dei tedeschi su in Friuli: tutto che bruciava, fieno, derrate alimentari; animali che gridavano impazziti.
Non si seppe mai chi fu ad appiccare il fuoco, se tedesco o partigiano; ma, chiunque fosse, dovette toccare con mano, non potè ‘non vedere o non sentire’, anche se in fuga.
Ma quella foto mi ha fatto pensare anche a qualcosa di più recente, perché l’immagine dà l’idea di una costruzione che esplode a causa di un intensissimo calore interno: è ciò che accadde con l’esplosione atomica a Hiroshima e Nagasaki. In quella occasione sapemmo chi fu, ma chi fu non vide e non sentì: questa è la tragica differenza. Oggi ci sono i droni, strumenti sempre più perfetti per allontanare l’uomo da quello che la sua distruttività produce.
Vorrei che non diventassimo droni, strumenti per produrre macerie di cui poi non ce ne facciamo carico.
L'obiettivo non è certo quello di *disfarsi di ogni speranza, evitando così altre disillusioni* (Mayoor)ma è quello di assumerci le nostre responsabilità. Perchè l'emergere della speranza (qui non intesa come Virtù)non avviene per opera dello spirito santo ma come esito del faticoso conflitto interiore tra le nostre istanze arcaiche distruttive e quelle più mature, aggressive.


Anonimo ha detto...

sempre io, R.S.
ho 'sincopato' nell'espressione *qualcosa di più recente*: intendevo dire "qualcosa la cui proliferazione nefasta la vediamo ben espressa nei recenti conflitti".
Scusate.

Anonimo ha detto...

Pur avendo letto le ultime di Rita non posso non inviare qualche impressione, appunto impressione di una sconfitta e di una impossibilità di riemergere, appigli e sponde servono poco di fronte all’ignavia senza fine. Anche il masso di Sisifo è fermo non viene più spinto verso la cima del monte. Non c’è più sfida. Neanche la sfida della bellezza di Manet. La sensibilità di Rita fa allontanare per l’ultima volta la donna nuda da “Le déjeuner sur l’herbe”. Ferlinghetti in un suo quadro “After Image" del 1990, aveva rilocato lo stesso “déjeuner” lungo “autostrade larghe 50 corsie “ dove sfrecciano “cittadini menomati in macchine colorate con strane targhe e motori che divorano l’America". La sensazione anche a quasi un quarto di secolo è di vuoto, la comunicazione viene interrotta e si resta spaesati di fronte ai suoni della lingua-market-tara. enzo