Concludendo il discorso su La polis che non c’è. Tre modi di
interrogarsi in poesia sul venir meno della polis e della società civile pubblico
gli appunti di lettura di R. Bertoldo su Il disgusto di Gianmario Lucini [E. A.]
Gianmario Lucini, Il disgusto, Edizioni CFR, Piateda (SO) 2011.
La
parola poetica di Lucini ne Il disgusto
viene lasciata libera, almeno questa è l’impressione di lettura, di adattarsi
alla volubilità emotiva dell’autore. Ne viene fuori un’espressione variegata
che contempla tanto il linguaggio lirico elitario, esito dell’ampia apprensione
culturale e poetica di Lucini, quanto quello prosaico popolare, esito dell’umano
civismo dell’autore. Forte della pregnanza poetica presente in genere nei poeti
della sua generazione ma, rispetto a questi, capace di restare libero da
influenze ideologiche, Lucini riesce a guardare le nostre colpe sociali dal di
dentro. La poesia civile di Lucini è dunque poesia della rivendicazione, non
tanto però nei riguardi dei poteri quanto, come il Foscolo disgustato, nei
riguardi del popolo. Un popolo “di lacché” (p. 57), un popolo che non è un
“popolo” (p. 58); così come i poeti sono senza civiltà (p. 40 e p. 41), sono
“mercenari” (p. 44), portati solo a un canto utilitaristico (p. 53); insomma,
un popolo che è “nemico”, ma un nemico con «mie sembianze» (p. 39).